Non tutti i lottatori sono capaci di pensare le MMA quando entrano a lottare dentro l’Ottagono. Francis Ngannou è l’esempio più lampante.

Francis Ngannou è l’esemplificazione di colui che fa qualcosa senza sapere cosa sta facendo. Peso massimo camerunese di ben 118 kg, con una massa muscolare spaventosa, il suo pugno è il più potente che sia mai stato misurato. E tuttavia, dopo 14 incontri da professionista, Ngannou è ancora convinto che basti fare affidamento sulla sola forza bruta per vincere. Di solito, quando un’atleta mostra certe convinzioni errate, la colpa è di chi lo allena. Ogni atleta è in più sensi l’espressione del suo team. Da parte mia, cercherò di mostrare che questo è sì vero, ma non costituisce che una metà della storia. L’altra metà, che è quella che mi interessa trattare qui, ha a che fare con l’incapacità di Ngannou di pensare le MMA, e quindi di pensarsi come fighter di questo sport.

Sebbene Ngannou si fosse già distinto per alcune performance non trascurabili, il suo nome comincia ad essere noto al grande pubblico dopo la sua spettacolare performance a UFC 218. In quell’occasione, il camerunense manda KO il veterano Alistair Overeem con un montante che è stato inserito al primo posto nella classifica Ufc dei 10 miglior KO del 2017. La UFC, nella figura del presidente Dana White, non ha perso tempo. A Ngannou viene concessa la possibilità di combattere per il titolo dei pesi massimi contro Stipe Miocic un mese e mezzo dopo a UFC 220. White e soci sfruttano l’euforia diffusa del momento per costruire un hype attorno al camerunese di un’intensità tale che oramai sembrava già che Ngannou avesse il titolo in tasca, con buona pace dello stesso Miocic. 

Bisogna dire che si è trattato di un hype la cui narrazione era molto semplice da elaborare. Parliamo di un ragazzo che a 26 anni fugge dal Camerun e si trasferisce a Parigi per seguire il suo sogno di praticare la boxe. Ngannou è motivato dal desiderio di fare qualcosa di positivo nella vita. Il camerunese non vuole diventare come il padre, che in patria aveva una pessima reputazione come street fighter. Tuttavia, è costretto a vivere come clochard fra le strade della capitale francese, in quanto senza soldi e senza amici.

In seguito, la svolta, grazie all’incontro con l’ex allenatore Fernand Lopez, che lo distoglie dal suo proposito di diventare un pugile. Lopez inizia il fighter alle arti marziali miste. In più, lo accoglie come un figlio e gli consente di allenarsi gratis nella sua palestra parigina, la MMA Factory, e perfino di dormirvi. Questa storiella non può non ricordare, per quanto da lontano, quella di Mike Tyson e del suo coach/padre acquisito Cus D’Amato. La UFC aveva abbastanza elementi a disposizione per presentare Ngannou al grande pubblico come il fighter che viene dalla strada, dalla povertà, che cerca il riscatto personale e sociale nello sport, e che un giorno viene salvato da un benefattore come per magia.

Non è tutto oro ciò che luccica; infatti, il rapporto fra Ngannou e Lopez sembra essersi oramai incrinato, e in maniera irreparabile. Lo scorso agosto, Lopez si è pronunciato su alcune dichiarazioni di Dana White contro Ngannou, secondo le quali il camerunese sarebbe preda del proprio ego smisurato. Lopez, che aveva allenato Ngannou in vista dell’incontro con Miocic, ha sostenuto che allora Ngannou non si era attenuto al gameplan. Il camerunense aveva deciso di testa sua di combattere solo in piedi senza applicare nulla del grappling in cui pure si era allenato. Il risultato? Lo sfidante al titolo ha poi passato la maggior parte dei cinque round a terra sotto il peso e la pressione di Miocic.

L’ex allenatore, poi, ci teneva a sottolineare questa cosa. All’indomani della disfatta totale di Ngannou contro Miocic, i riflettori erano tutti puntati su di lui. Il gameplan dell’incontro non poteva non risultare ridicolo (per non dire altro), ma la colpa era stata tutta del camerunese, che aveva voluto fare di testa sua. Lopez, per quanto lo dica da “fratello”, si è trovato nei fatti d’accordo con Dana White: Ngannou ha un grave problema di ego.

Questo problema di ego emerse in effetti subito dopo UFC 220. Ngannou, che fino a quella data si era allenato con Lopez tra la MMA Factory francese e lo UFC Performance Institute a Las Vegas, decide poi di cambiare palestra in vista dell’incontro con Derrick Lewis a UFC 226, e passa alla Syndicate MMA di Las Vegas sotto la guida di John Wood. Da come Lopez descrive l’accaduto, non sembra essere stato un addio felice. Insomma, è tutta colpa del mio coach e del mio team se ho perso in maniera così eclatante, e quindi me ne vado.

Perfetto, direte voi. Ngannou ha affrontato Lewis sotto l’egida di un altro team, che ha scelto per non fare gli errori del passato. La sua performance sarà stata migliore o, per lo meno, diversa dalla precedente. In effetti sì, è stata diversa, ma in peggio. Terribilmente in peggio. Perché se l’incontro con Miocic ci ha mostrato uno Ngannou “exposed”, nell’incontro con Lewis abbiamo assistito alla performance di un fighter esitante, troppo esitante, quasi spaventato di fare la prima mossa. Non a caso l’incontro fra Lewis e Ngannou è stato definito uno dei peggiori incontri di pesi massimi della storia delle MMA, se non il peggiore.

Bisogna ammettere che il camerunese è stato onesto con se stesso e con gli altri, non ha accampato scuse, e ha dichiarato che la pessima performance contro Lewis era figlia del trauma derivante dalla sconfitta subita ad opera di Miocic cinque mesi prima. In altri termini, noi lo vedevamo imbalsamato nell’ottagono perché nei fatti lui era pietrificato dalla paura di fallire di nuovo. Non vi è dubbio che sia così. E tuttavia, io credo si debba inserire l’episodio in un contesto più generale. Sia l’incontro con Miocic che quello con Lewis sono due accadimenti che manifestano un evento più generale e molto più grave. Ngannou non capisce nulla di MMA, non riesce a pensare le MMA, e quindi non riesce ad esprimerle. Il suo diventa quindi un problema di stile. 

Il camerunese, infatti, non incarna nessuno stile. Non so e non posso sapere quanto questo dipenda dal suo coach attuale, John Wood, o da quello precedente Lopez. Non posso sapere nemmeno se quest’ultimo abbia detto la verità in merito all’allenamento e al gameplan attinenti all’incontro di Ngannou con Miocic. Avere un ottimo team significa molto per un fighter, soprattutto nelle MMA le quali costituiscono uno sport molto ricco e variegato, con infiniti aspetti da curare e da limare.

Da parte mia, credo però che, oltre a questa verità imprescindibile, si tratti anche di una questione molto più basilare, per quanto fondamentale. È la questione classica dell’essere in grado di pensare quello che si fa, e che riguarda l’atleta, come il falegname, come una madre o un padre. Essere consci del proprio ruolo e di cosa si sta rappresentando, o meglio, esprimendo. E se un atleta professionista di MMA, dopo 14 incontri, non è ancora in grado di avere chiaro il proprio ruolo di fighter di MMA, non credo si possa dire che la colpa è del team. O almeno non può esserlo del tutto, ma solo in parte.

In vista del suo prossimo incontro con Curtis Blaydes a Ufc Fight Night 141, Ngannou ha dichiarato che ha ritrovato la fiducia in se stesso e che è pronto a zittire coloro che lo criticano. Caro Francis, sono contento che alla Syndicate Gym di Las Vegas ti trovi bene, ma no, qui la fiducia in se stessi non c’entra. Ti manca proprio l’abc dello sport. 

Le MMA sono uno sport che va pensato come un’unità espressa da una molteplicità, o, se si preferisce, come una molteplicità che esprime un’unità. Le varie discipline, o meglio, gli stili, sono le molteplicità che popolano un piano unico di espressione che chiamano arti marziali miste. Ogni disciplina (boxe, muay thai, jiu-jitsu, etc.) non viene introdotta tout court su questo campo. Prima, deve essere scomposta nelle tecniche che la costituiscono, e solo le tecniche che funzionano possono essere distribuite su di esso. L’efficacia di una tecnica dipende da diversi fattori, in primis quello di cui è capace un atleta. Il risultato della immissione di tecniche sul campo non ha affatto l’aspetto di una somma. Ogni tecnica, per poter accedere al piano, deve perdere la sua forma originaria, e deve potersi comporre con un’infinità varietà di altre tecniche.

Questo significa che il pugno della boxe non è quello delle MMA. La sensibilità delle due tipologie di pugno non è la stessa, il secondo deve far fronte a un numero di legami con altre tecniche superiore rispetto al primo. Cosa accade se mentre mi tiri un jab ti afferro il braccio e applico una flying armbar? In questo modo, si viene a creare un legame necessario fra le varie tecniche, il quale costituisce lo stile di un fighter di MMA.

Tutto questo discorso è in realtà l’abc di ogni professionista di MMA degno di questo nome. Francis Ngannou non rientra in questa categoria. Ngannou non possiede questo abc, e dimostra invece di ritenere che le MMA siano più una questione di forza bruta applicata che di capacità di mettere in atto composizioni di tecniche attraverso uno stile.

La forza di Ngannou è la qualità che più lo distingue. Essa ne fa un avversario temibile per chiunque nella categoria dei pesi massimi, e nessuno lo mette in discussione. Mi si consentirà però di dire che se non incanalata nella direzione giusta e affiancata da tutto il resto, non può bastare e definire un fighter come un fighter di MMA. Anzi, dirò di più: non basta proprio a definire un fighter professionista, ma al limite, e proprio al limite, uno street fighter. E non credo proprio che Ngannou sarebbe felice di essere definito così, visti i trascorsi del padre.

Potrò sembrare piuttosto ingeneroso a parlare così di un atleta che pure ha al suo attivo performance di rilievo, prima fa tutte quella contro Overeem. Tuttavia, non vedo come si possa spiegare altrimenti la dominazione assoluta subita ad opera di Miocic, che ha imposto il suo stile su un fighter che uno stile sembrava non averlo proprio. A guardarlo, sembrava l’incontro di un professionista e di uno che ha appena iniziato a fare MMA perché nella palestra della sua città offrono una settimana gratuita di prova.

È lo stesso Ngannou a confermare quello che dico, quando, commentando il video del devastante KO da lui operato proprio ai danni di Overeem, si esprimeva così:

Non so un cazzo di quello che facco, lo faccio e basta.

Il suo striking coach, Dewey Cooper, non a caso interviene spiegandogli quello che aveva fatto, quasi si fosse accorto dell’imbarazzo venutosi a creare. Qui non si tratta di automatismo, che è parte integrante del dominio di ogni campo del sapere, pratico e non, ma di ignoranza. Per fortuna, l’ignoranza si cura con l’umiltà. Ngannou di umiltà ne ha da vendere. I suoi problemi di ego derivano più da un hype esagerato e ingiustificato che i media hanno impostato attorno alla sua persona, e che gli ha fatto più male che bene, che da uno specifico atteggiamento della persona stessa. Di conseguenza, in occasione di UFC Fight Night 141, non posso che sperare di essere smentito.

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Francescopaolo Cimino

Filosofo e fan accanito di MMA dal 2010. Ho anche praticato MMA per circa un anno e mezzo a livello dilettantistico. Il mio contributo a 4once vuole essere quello di elaborare dei pezzi in cui cerco di pensare l’essenza delle MMA e il rapporto che essa intrattiene con gli stili che la costituiscono e con i fighters che la esprimono. Al momento, sto scrivendo un libro su filosofia e MMA che uscirà nel 2019 per Il Melangolo

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